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Juergen Teller a Palazzo Reale

Vivienne Westwood No.1, London 2009. 241×183 cm.

La mostra di Juergen Teller a Palazzo Reale ha il considerevole pregio di essere gratuita, e per questo bisogna congratularsi con gli organizzatori. Il visitatore è, tuttavia, costretto a pagare il prezzo intellettuale di un allestimento approssimativo di un artista pur molto significativo. Se, infatti, la selezione dei lavori è molto accurata e testimonia la eterogeneità degli spunti e dei temi dell’artista –dal paesaggio al ritratto alla narrazione fotografica, molti altri aspetti dell’esposizione lasciano molto a desiderare. In primis la scelta, economica certo, e forse mascherata dietro false pretese di post-poverismo, di appendere le foto con solo delle mollette metalliche sulle magnifiche tappezzerie damascate di Palazzo Reale: un contrasto stridente che non si armonizza in nessuna sala, a parte quella in cui c’è Louis XV No.9, cosa che ho dovuto desumere dalle ricerche su internet (poichè manca ogni tipo di indicazione o di targhetta alle pareti), e quella in cui c’è un bell’effetto tra lo specchio di una delle stupende sale e l’acqua in cui è distesa una modella ritratta, di cui non riesco a ritrovare il titolo. Ora, io capisco che questa non sia la mostra di Picasso e che sia, magari –ma non credo–, frequentata dai soli addetti ai lavori, ma è mai possibile esibire dei lavori senza nemmeno dare l’informazione del titolo, come se ci si trovasse di fronte al Giuramento degli Orazi, che si suppone che tutti conoscano? Ancor più tragica è la bacheca in cui è esposto un foto-racconto, in cui molte foto sono accompagnate da un brano di testo, che si ricompone nella sua totalità leggendo in sequenza le diverse fotografie:  peccato che due fotografie siano invertite. Non è certo una tragedia, ma il fatto rende perfettamente conto della faciloneria con cui è stata allestita questa mostra, che, nonostante il grande nome della curatela che la accompagna (Francesco Bonami), che si fa notare nei suoi tratti salienti, è un perfetto esempio di quanta poca attenzione spesso si dedichi, in un Palazzo Reale ormai esausto, alla qualità degli allestimenti. Continua a leggere

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Mimmo Rotella: “L’artista sensibile a ciò che succede nel mondo dovrebbe raccontare con la sua creatività i fatti più importanti della nostra vita.”

"Marylin", 1963. Décollage, 70x100 cm. Collezione privata, Verona.

Mimmo Rotella era un artista che semplicemente strappava i manfesti pubblicitari dai muri, li portava nel suo studio e li stracciava ulteriormente: talvolta erano stratificati, talvolta vi scriveva o dipingeva qualcosa, ma il nucleo centrale della sua opera, dopo la scoperta di quello che poi venne chiamato décollage, rimase sempre inalterato. A questo proposito giova ricordare che quella che Freud chiamava “coazione a ripetere” è un processo tipico dell’essere umano, anche inconscio, ma che soprattutto, gli artisti operano con un certo grado di serialità -come diceva Monet- “per incidere il passaggio del tempo, che trascorre sempre uguale e sempre diverso”: poco o niente, quindi, questa serialità della poetica ha a che fare con il mercato e le gallerie, ed anche qualora lo stesso artista si dicesse schiavo delle gallerie, probabilmente non sarebbe che un modo di mascherare la necessità di approfondire sempre lo stesso tema, di cui non dovrebbe vergognarsi. Senza con questo fare apologia delle gallerie, che hanno anch’esse le loro colpe (v. l’articolo su Jean-Michel Basquiat)…

Rotella strappava i manifesti proprio come i ragazzini, come diceva lui stesso. Molti potranno sostenere che non c’è nessuna arte in questo gesto, ma potrebbe soccorrerci l’autorità di Argan, che, giustamente disse: “Qualcuno magari penserà che quadri come quelli avrebbe saputo farli anche lui, non è difficile staccare dai muri la crosta indurita dei cartelloni sovrapposti; ma intanto avrà imparato a vedere un aspetto dino a quel momento insignificante del paesaggio della sua città”. Oggi il ruolo dell’artista non è creare un’immagine, nel bombardamento mediatico cui siamo sottoposti, ma farci riflettere sul suo ruolo, insegnarci a vedere e non più raccontarci una storia (già Manet l’aveva capito). Continua a leggere

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Fontana: “…è l’infinito, e allora buco questa tela, che era alla base di tutte le arti, ed ecco che ho creato una dimensione infinita, un buco che per me è la base di tutta l’arte contemporanea, per chi la vuol capire. Sennò continua a dire che l’è un büs, e ciao…”

"Concetto spaziale. Attese", 1967. Idropittura su tela, 65 x 54,3 cm. Museum Frieder Burda, Baden-Baden.

Lucio Fontana è un artista enigmatico: ha parlato pochissimo nella sua vita ed ha prodotto moltissimo. Da validissimo scultore di lapidi in Argentina a scultore simbolista in Italia a pittore che inganna la giuria delle mostre, dando ai membri dei vetusti tromboni, sostenendo che le sue tele sono sculture, cosicchè, seppur invitato da scultore, potesse esporre delle tele, Lucio Fontana ha sempre saputo stupire.

Non poco stupore, infatti, provocò il suo gesto –immortalato da Ugo Mulas– di tagliare le tele. Molti sono stati, sono e saranno critici nei confronti di quello che è stato, probabilmente, il gesto più significativo dell’arte del ‘900: “avrei potuto farlo anch’io”; “l’è un büs, e ciao…”; “non significa niente”; “lo saprebbe fare anche un bambino”; “e lo vendono a milioni di euro..”. Eppure quel gesto racchiude in sè una quantità di significati che difficilmente riusciremo a condensare in un solo articolo.

Il taglio di Fontana è in primo luogo una ricerca di potenzialità spaziali ancora inesplorate, di luoghi dell’arte oltre e dopo la tela, su cui, in centinaia di anni di storia dell’arte, si è impresso tutto quanto si poteva, da Caravaggio a Pollock, liberandosi di quella tradizione rinascimentale che tanto metteva l’uomo al centro del mondo, quanto lo ancorava alla gestione di questo mondo, alla preoccupazione della mondanità, all’impossibilità della trascendenza. L’arte con Fontana diventa tridimensionale: quel buco apre il retro della tela, l’oltre, il di qua e di là che si integrano in un unico spazio: Fontana supera la storia dell’arte prima di lui, con un gesto fisico, tanto d’impulso quanto di chirurgica precisione, operando, insomma, quella che a diritto, qui, si può chiamare “cesura”. Il suo è un gesto di ribellione iconosclastica, di rottura della sacralità dell’immagine e della tela, di passaggio dalla complessità alla semplicità, che, come sosteneva Brancusi, è già complessa di per sè. Continua a leggere

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Brâncuşi: “La semplicità non è un fine dell’arte, ma vi si arriva, malgrado se stessi, quando ci si avvicina al senso reale delle cose. La semplicità è la complessità stessa.”

"Uccello nello spazio", 1923. Marmo, 144x16 (diam. max.) cm. MOMA, New York.

Quest’opera è astratta? Cosa rappresenta? Bisognerebbe partire dal fatto che, forse, sarebbe anche giusto ogni tanto ricordarsi che l’opera d’arte -come diceva lo stesso Brâncuşi- è uno specchio in cui ognuno vede ciò che gli somiglia e accettare, quindi, di buon grado che ognuno possa vedere cose diverse in un’opera. Ma soprattutto dovremmo capire che l’arte non riproduce le idee, ma le fa nascere, cosicchè non ha molto senso chiedere all’artista cosa volesse rappresentare, perchè spesso e volentieri, di fronte alla sua opera l’Artista vorrebbe scomparire, poichè la sente molto più grande di sè. Consci di questi enormi limiti, tuttavia, si può provare a dare una risposta: Costantin Brâncuşi stesso dava dell’imbecille a chi pensava che lui fosse un artista astratto, poichè egli si riteneva realista.

Ma allora Brâncuşi sta, forse, mettendo in dubbio la nostra idea di realtà? “Reale non è la forma esteriore, ma l’essenza delle cose”. Necessariamente ne deriva che nulla di essenziale può essere rappresentato imitando la superficie delle cose. Potremmo dire, con quel Platone di cui nell’atelier di Brâncuşi sono stati trovati i libri squadernati da quanto erano studiati, che le idee sono ben più reali delle forme mutevoli della realtà, checchè se ne dica. Ecco che ciò che cade di fronte a Brâncuşi non è tanto l’idea che ci sia qualcosa di reale, ma la distinzione tra ciò che è reale e ciò che non lo è: se reale significa eternamente e profondamente vero, ciò che ha il maggior grado di astrazione potrebbe essere la cosa più reale al mondo.

Sembra che Brâncuşi cerchi continuamente l’idea dell’uccello in volo, il suo senso profondo, la sua essenza: non gli interessa fare il tassidermista, che rappresenta perfettamente un uccellino in volo, come hanno fatto e faranno mille altri, senza che vi sia niente di definitivo, di essenziale, in moltissimi di essi (un’eccezione eternamente valida è rappresentata da Cézanne): degli artisti cosiddetti “realisti” diceva, appunto, che non facevano altro che “bistecche”. Continua a leggere

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Wood: “Sono la profondità e l’intensità dell’esperienza di un artista ad essere la cosa più importante per l’Arte”

"Gotico americano", 1930. Olio su tavola, 74x62 cm. Art Institute, Chicago

Grant Wood è un artista complesso, dalla personalità difficile, omosessuale, americano, che studia a lungo in Europa e poi polemicamente torna negli States, sostenendo che le uniche buone idee della sua vita gli siano venute in Iowa, mungendo una mucca.

Nonostante siamo negli anni ’30, l’uomo e la donna (che in realtà sono parenti di Wood che non sapevano sarebbero finiti insieme in un quadro così particolare) sono rappresentati ieraticamente nel tipico atteggiamento di due contadini puritani: l’uomo è destinato al duro lavoro, rappresentato dal forcone, e la donna, sempre un passo indietro, lo deve assistere. Se pensiamo ad un’immagine degli anni ’30 in Europa, ad es., Metropolis, 1928 di Otto Dix, ci sembra di essere stati catapultati in un mondo alieno. Tutto in America sembra essersi fermato all’ ‘800. Eppure Wood in questa staticità riesce a cogliere le basi della forza di un progresso trascinante, volti rigidi e grigi, che però sanno lavorare indefessamente. Questi due uomini del Midwest, dell’Iowa, sono il vero tesoro, il vero investimento del popolo americano: casa, chiesa e lavoro sono le tre colonne portanti del self-made man, made in U.S.A..

Ma non è tutto oro quello che luccica. Lo sviluppo della travolgente forza primigenia di lavoratori e lavoratrici immersi in un paradiso tutto ancora da sfruttare, tutto ancora da scoprire, sembra avere un prezzo molto elevato: paesaggi come Risveglio Primaverile, 1936 hanno, sì, qualcosa di magicamente paradisiaco, ma sembrano avere la consistenza “della materia di cui sono fatti i sogni” (Shakespeare); sembrano essere, più che la realtà presente, una realtà sperata, un altrove immaginato, un rifugio dalle inquietanti certezze della morale americana. Ed ecco che, forse, dietro la scelta di Wood di tornare in Iowa si nasconde l’autoconvincimento di un uomo che non sa vivere in un’Europa ormai al traguardo della sua stessa storia, ma, in realtà, nemmeno nell’America dei soli forti, dei soli vincitori. Continua a leggere

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