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Goya: “L’oppressione, l’obbligo servile di far studiare e seguire a tutti lo stesso cammino è un grande ostacolo”

 

“Il 3 maggio 1808: fucilazione alla Montaña del Principe Pio”, 1814. Olio su tela, 270×350 cm.                                Madrid, Museo del Prado.

Francisco Goya è un pittore spagnolo a cavallo tra ‘700 ed ‘800, e che quindi sta proprio a stento nella nostra periodizzazione. Tuttavia, la sua pittura è di una straordinaria modernità. Goya, vivendo in una Spagna in definitiva crisi, finiti gli splendori del periodo moderno, in cui aveva avuto un impero su cui non tramontava mai il sole, dipinge un paese dilaniato dai conflitti sociali, mangiato dalla superstizione e dalle guerre.

Il quadro in analisi, assoluto capolavoro, rappresenta, infatti, l’esecuzione dei patrioti spagnoli durante l’invasione napoleonica e nasce come risposta al quadro di Gros sulla capitolazione di Madrid [1810], in cui Napoleone sembra accettare la pace da un popolo umiliato e sconfitto che lo prega e lo ossequia. Questa tragedia collettiva, unita alla crudezza della guerra, fa perdere a Goya la fiducia nei principi illuministi che lo aveva accompagnato fino ad ora.
Tutto ciò che si può dire sul quadro e su questa fase della pittura di Goya è contenuto nel quadro stesso, approdo delle ricerche del pittore spagnolo.

Come abbiamo accennato, Goya si trovò quasi costretto ad abbandonare il pensiero illuminista alla vista degli orrori della guerra e della servitù: non a caso la lanterna, simbolo dell’illuminismo, sta dalla parte dei francesi, come a dire che l’illuminismo è stata una creazione francese, che doveva essere esportata da loro, ed invece ciò che essi stanno esportando non sono altro che fucili.
I fucilieri sono disposti in diagonale e spersonalizzati, poiché non se ne vede il volto: non si può capire il perchè del loro gesto, il perchè della guerra, insensato orrore. La loro vicinanza ai condannati aumenta l’insensata crudeltà dell’evento.
Lo stagliarsi sullo sfondo di un monastero allude non solo alla cristianità offesa dalla violenza, ma anche alla complice collaborazione del clero spagnolo con l’invasore napoleonico: ora il monastero assiste all’abominio e se ne fa complice, accogliendolo tra le sue colline. E’ un monastero svuotato, fisicamente, di senso: percepiamo il vuoto in cui lo stesso clero si è chiuso, in cui la sua propria ottusità l’ha condannato, nel rinunciare alla sua missione sociale. Continua a leggere

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Escher: “Chi si meraviglia di qualcosa si rende consapevole di questa meraviglia”

“Relatività”, 1953. Xilografia, 28×29 cm. Collezione privata.

Maurits Cornelis Escher (M.C. Escher) viene spesso ricondotto al movimento della Op Art (Optical Art), che trova nell’illusione ottica il suo oggetto principale. Questo movimento caratterizzò buona parte delle manifestazioni artistiche degli anni ’70, dando lustro ad importanti artisti, come la britannica Bridget Riley [“Movimento in quadrati”, 1961]. Tuttavia, già lo stesso Escher fece notare che lui lavorava sui giochi visivi fin dagli anni ’30, assoluto pioniere in questo ambito. Ciò che lascia, però, costernati è che egli non fu solo un pioniere della Op Art, ma il suo massimo esponente, ed anzi, ad essere precisi, egli fondò e pose fine alla Op Art prima che questa nascesse: ne sperimentò tutte le possibilità tecniche e visuali, il che lo rese un maestro di primo rango e tolse (soprattutto con gli occhi di oggi) molto interesse alla un tempo tanto celebrata Op Art.
Anche i rapporti di discendenza, molto evidenti per la Op Art degli anni ’70, da De Stijl e Bauhaus, in Escher sfumano abbastanza, lasciando spazio alla sua figura personale di grande innovatore, certamente non ignaro dei suoi illustri precedenti/contemporanei, e spesso colto nei suoi riferimenti, come in “Natura morta con sfera riflettente” [1934] in cui come Van Eyck nel “Ritratto dei coniugi Arnolfini” [1434] (part.), l’artista si ritrae nel momento della realizzazione dell’opera.

Le aspirazioni concettuali della Op Art in Escher sono compensate da una solidissima padronanza della tecnica (in particolare della xilografia e della litografia) e da un’attenzione esasperata all’aspetto pratico del mestiere della stampa, in singolare continuità con un’educazione infantile che aveva unito la carpenteria allo studio del pianoforte, la tecnica delle costruzioni all’astrazione della musica. Continua a leggere

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Devalle: “Tutto passa attraverso di me, che battezzo, decido; io comunico un modo di pensare il mondo”

“Audrey Banana”, 1964. Collage su carta. Proprietà dell’artista.

collages degli anni ’60 di Beppe Devalle sono tra le opere che meglio illustrano il momento del difficile ritorno alla figuratività dopo l’onda dell’espressionismo astratto seguita agli orrori della seconda guerra mondiale e dei totalitarismi.

L’almanacco Bompiani sulla Pop Art edito in Italia nel 1962 fa capire a Devalle che bisognava confrontarsi di nuovo con la figura, con la realtà, ed in un modo nuovo rispetto al passato. L’attenzione, infatti, ora era puntata su ambiti lontani dall’arte, ma che l’arte aveva il dovere di conoscere: design, fumetto, fotografia, passerelle di moda, cinema, automobili. Ne derivano opere di grandissima forza comunicativa, di un’eleganza inusitata.

Devalle, però, comprende che qualcosa di fondamentale deve cambiare rispetto a ciò che già il Pop americano ha conquistato, e precisamente lui sente il compito di inserire qualcosa di europeo in queste opere: il ritaglio, la scelta tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, il senso critico, la capacità di non acquisire passivamente tutto ciò che la TV manda in onda. Continua a leggere

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Weinstock: “Il mio lavoro è sempre stato radicato nella fotografia, nell’idea di congelare nel tempo un momento o un ricordo”

“Vacation Uniform”, 2009. Camicie, pigmento, gomma. 33 x 196 cm. Collezione privata.

Jil Weinstock usa tecniche stranissime. Jil Weinstock è giovane. Jil Weinstock contesta nostalgicamente. Jil Weinstock sta vendendo moltissimo. Forse merita attenzione.
Un’opera come questa, Vacation Uniform, ricorda i quadri “industriali” di Tino Stefanoni, di cui riprende, a distanza di circa quarant’anni, il messaggio di “razionalità emozionale”, di unione di rigore ed emozione, rafforzandolo attraverso la resa tridimensionale degli oggetti, che dalla tela in 2D passano alla scultura in 3D.

Come è evidente, da giovane donna newyorkese di oggi, Jil Weinstock a questo messaggio-base di impronta post-pop aggiunge riflessioni ulteriori. In primis, nelle sue opere di “gommificazione” dei vestiti, si intuisce una contestazione radicale del sistema della moda. La moda, infatti, per esistere, deve continuamente negarsi, auto-distruggersi, essere nuova. Jil, invece, ingabbiando nella gomma abiti –usati– che le vengono donati, cristallizza i vestiti, l’oggetto di quella proteiforme creatura che è la moda, che da questo gesto viene completamente distrutta. Questo gesto non vale solo come contestazione della moda, ma anche come rivendicazione di una separazione dei mondi tra moda ed arte: se, da un lato, la moda per esistere deve continuamente auto-distruggersi, fuggire dal fantasma del proprio passato, l’arte con quel fantasma deve sempre e costantemente confrontarsi, in un’ottica assolutamente dialettica. L’arte è anche conservazione del passato nel presente, è novità nella conservazione. Questo aspetto conservativo è particolarmente evidente in opere come Airplain [2010], in cui la bronzatura di un aeroplanino Fisher-Price anni ’70 assume, tra gli altri significati, anche questa valenza. Continua a leggere

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Talking with: Roberto Ciaccio

Roberto Ciaccio

Nel lavoro di Roberto Ciaccio ri realizza il percorso di un metalinguaggio della stampa originale, che nasce dalla decostruzione del pensiero di Walter Benjamin, nel suo fondamentale saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”.

Qual è il rapporto tra lastra e foglio?
La lastra rilascia tracce ma accoglie anche tracce dei fogli. Io non le cancello: lascio che si stratifichino e che il tempo agisca.
Tra un’impressione e l’altra di una stessa lastra su un foglio si creano delle “petites différances” –come diceva Derrida–, che rendono ogni opera un originale, una cosa a sé.

C’è una distanza ideale da cui guardare le sue opere?
Il discorso della distanza è importantissimo nel mio lavoro. La possibilità di vedere le opere in sequenza è fondamentale: noi possiamo guardare sia la singola opera, sia una sequenza di opere, che è essa stessa un’opera, che lavora su una serialità che implica per lo sguardo e per il pensiero un movimento longitudinale oltre che in profondità. Cosa diversa è osservare la singola opera, che però si modifica sempre nell’interazione con le altre.
Detto ciò, mi ha sempre incuriosito il fatto che l’opera istituisca il suo proprio luogo, quello della sua aura -secondo il concetto di Benjamin-: il mio lavoro porta la figura ad apparire ai limiti di una soglia visiva, per cui c’è sempre un’oscillazione continua dello sguardo, che per noi si traduce in un continuo tentativo di messa a fuoco, che però ci sfugge. Il nostro occhio, infatti, non riesce a conseguire una stabilità su un punto, senza perderne un altro, ed anche la macchina fotografica digitale non riesce a mettere a fuoco queste immagini.

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