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Fattori: “Tutto il creato che vedo, osservo e tocco mi incanta”

"In vedetta", 1872. Olio su tela, 34x54 cm. Collezione privata.

Giovanni Fattori era un pittore che credeva nella capacità evocativa della macchia di colore, un macchiajolo, un pittore per cui segno e colore si fondono in un’unica pennellata, che nel suo tratto continuo dà una fortissima evidenza plastica alla figura, come a rendere l’immediatezza sintetica, per nulla attenta ai particolari, del colpo d’occhio, dell’impressione, avvicinandosi in questo alle idee dell’impressionismo -che in Francia imperava in quegli stessi anni-, come a dimostrare che spesso tra due movimenti culturali ciò che li differenzia è solo lo sviluppo differente di comuni presupposti [La rotonda di Palmieri, 1866].

Rispetto agli impressionisti, Fattori, tuttavia, sembra -sottolineo, sembra- meno emotivamente coinvolto: la sua pennellata è ormai placata nella memoria, non è frutto del gesto immediato e spontaneo. Sotto le apparenze si cela, invece, l’atteggiamento di chi prende tanto a cuore la realtà, la verità di ciò che vede, che vi vuole seriamente riflettere sopra, perchè Fattori dà voce all’indole di chi pensa che la più profonda partecipazione alla realtà passi attraverso una sorta di distacco, di sospensione del tempo, nella ricerca di quell’equilibrio tra soggetto ed oggetto che è la vera eredità culturale del mondo classico.

Fattori sente un palpito, un anelito panteistico di unione con la realtà: l’uomo non è più il supremo interprete della natura, ne è uno dei tanti componenti, cosicchè l’uomo-pittore non si astrae dalla natura, non la guarda dal di qua del cavalletto, ma vi si fonde, sottostando alle sue regole. Quell’invenzione che è la prospettiva Rinascimentale, quella volontà di costruire architettonicamente la realtà con le regole matematiche dell’uomo, cade di fronte ai quadri di Fattori, così stipati sulla tela, dove l’uomo appare integrato in un sistema molto più grande di lui, che sconfina dal quadro, che non può essere davvero imprigionato nella piccolezza della tela, come si illudevano di poter fare i pittori dal ‘400 in poi [Lorrain, Paesaggio con figure danzanti (Matrimonio di Isacco e Rebecca), 1648], con delle intuizioni, come abbiamo visto, già di Manet. Continua a leggere

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Mimmo Rotella: “L’artista sensibile a ciò che succede nel mondo dovrebbe raccontare con la sua creatività i fatti più importanti della nostra vita.”

"Marylin", 1963. Décollage, 70x100 cm. Collezione privata, Verona.

Mimmo Rotella era un artista che semplicemente strappava i manfesti pubblicitari dai muri, li portava nel suo studio e li stracciava ulteriormente: talvolta erano stratificati, talvolta vi scriveva o dipingeva qualcosa, ma il nucleo centrale della sua opera, dopo la scoperta di quello che poi venne chiamato décollage, rimase sempre inalterato. A questo proposito giova ricordare che quella che Freud chiamava “coazione a ripetere” è un processo tipico dell’essere umano, anche inconscio, ma che soprattutto, gli artisti operano con un certo grado di serialità -come diceva Monet- “per incidere il passaggio del tempo, che trascorre sempre uguale e sempre diverso”: poco o niente, quindi, questa serialità della poetica ha a che fare con il mercato e le gallerie, ed anche qualora lo stesso artista si dicesse schiavo delle gallerie, probabilmente non sarebbe che un modo di mascherare la necessità di approfondire sempre lo stesso tema, di cui non dovrebbe vergognarsi. Senza con questo fare apologia delle gallerie, che hanno anch’esse le loro colpe (v. l’articolo su Jean-Michel Basquiat)…

Rotella strappava i manifesti proprio come i ragazzini, come diceva lui stesso. Molti potranno sostenere che non c’è nessuna arte in questo gesto, ma potrebbe soccorrerci l’autorità di Argan, che, giustamente disse: “Qualcuno magari penserà che quadri come quelli avrebbe saputo farli anche lui, non è difficile staccare dai muri la crosta indurita dei cartelloni sovrapposti; ma intanto avrà imparato a vedere un aspetto dino a quel momento insignificante del paesaggio della sua città”. Oggi il ruolo dell’artista non è creare un’immagine, nel bombardamento mediatico cui siamo sottoposti, ma farci riflettere sul suo ruolo, insegnarci a vedere e non più raccontarci una storia (già Manet l’aveva capito). Continua a leggere

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Fontana: “…è l’infinito, e allora buco questa tela, che era alla base di tutte le arti, ed ecco che ho creato una dimensione infinita, un buco che per me è la base di tutta l’arte contemporanea, per chi la vuol capire. Sennò continua a dire che l’è un büs, e ciao…”

"Concetto spaziale. Attese", 1967. Idropittura su tela, 65 x 54,3 cm. Museum Frieder Burda, Baden-Baden.

Lucio Fontana è un artista enigmatico: ha parlato pochissimo nella sua vita ed ha prodotto moltissimo. Da validissimo scultore di lapidi in Argentina a scultore simbolista in Italia a pittore che inganna la giuria delle mostre, dando ai membri dei vetusti tromboni, sostenendo che le sue tele sono sculture, cosicchè, seppur invitato da scultore, potesse esporre delle tele, Lucio Fontana ha sempre saputo stupire.

Non poco stupore, infatti, provocò il suo gesto –immortalato da Ugo Mulas– di tagliare le tele. Molti sono stati, sono e saranno critici nei confronti di quello che è stato, probabilmente, il gesto più significativo dell’arte del ‘900: “avrei potuto farlo anch’io”; “l’è un büs, e ciao…”; “non significa niente”; “lo saprebbe fare anche un bambino”; “e lo vendono a milioni di euro..”. Eppure quel gesto racchiude in sè una quantità di significati che difficilmente riusciremo a condensare in un solo articolo.

Il taglio di Fontana è in primo luogo una ricerca di potenzialità spaziali ancora inesplorate, di luoghi dell’arte oltre e dopo la tela, su cui, in centinaia di anni di storia dell’arte, si è impresso tutto quanto si poteva, da Caravaggio a Pollock, liberandosi di quella tradizione rinascimentale che tanto metteva l’uomo al centro del mondo, quanto lo ancorava alla gestione di questo mondo, alla preoccupazione della mondanità, all’impossibilità della trascendenza. L’arte con Fontana diventa tridimensionale: quel buco apre il retro della tela, l’oltre, il di qua e di là che si integrano in un unico spazio: Fontana supera la storia dell’arte prima di lui, con un gesto fisico, tanto d’impulso quanto di chirurgica precisione, operando, insomma, quella che a diritto, qui, si può chiamare “cesura”. Il suo è un gesto di ribellione iconosclastica, di rottura della sacralità dell’immagine e della tela, di passaggio dalla complessità alla semplicità, che, come sosteneva Brancusi, è già complessa di per sè. Continua a leggere

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Brâncuşi: “La semplicità non è un fine dell’arte, ma vi si arriva, malgrado se stessi, quando ci si avvicina al senso reale delle cose. La semplicità è la complessità stessa.”

"Uccello nello spazio", 1923. Marmo, 144x16 (diam. max.) cm. MOMA, New York.

Quest’opera è astratta? Cosa rappresenta? Bisognerebbe partire dal fatto che, forse, sarebbe anche giusto ogni tanto ricordarsi che l’opera d’arte -come diceva lo stesso Brâncuşi- è uno specchio in cui ognuno vede ciò che gli somiglia e accettare, quindi, di buon grado che ognuno possa vedere cose diverse in un’opera. Ma soprattutto dovremmo capire che l’arte non riproduce le idee, ma le fa nascere, cosicchè non ha molto senso chiedere all’artista cosa volesse rappresentare, perchè spesso e volentieri, di fronte alla sua opera l’Artista vorrebbe scomparire, poichè la sente molto più grande di sè. Consci di questi enormi limiti, tuttavia, si può provare a dare una risposta: Costantin Brâncuşi stesso dava dell’imbecille a chi pensava che lui fosse un artista astratto, poichè egli si riteneva realista.

Ma allora Brâncuşi sta, forse, mettendo in dubbio la nostra idea di realtà? “Reale non è la forma esteriore, ma l’essenza delle cose”. Necessariamente ne deriva che nulla di essenziale può essere rappresentato imitando la superficie delle cose. Potremmo dire, con quel Platone di cui nell’atelier di Brâncuşi sono stati trovati i libri squadernati da quanto erano studiati, che le idee sono ben più reali delle forme mutevoli della realtà, checchè se ne dica. Ecco che ciò che cade di fronte a Brâncuşi non è tanto l’idea che ci sia qualcosa di reale, ma la distinzione tra ciò che è reale e ciò che non lo è: se reale significa eternamente e profondamente vero, ciò che ha il maggior grado di astrazione potrebbe essere la cosa più reale al mondo.

Sembra che Brâncuşi cerchi continuamente l’idea dell’uccello in volo, il suo senso profondo, la sua essenza: non gli interessa fare il tassidermista, che rappresenta perfettamente un uccellino in volo, come hanno fatto e faranno mille altri, senza che vi sia niente di definitivo, di essenziale, in moltissimi di essi (un’eccezione eternamente valida è rappresentata da Cézanne): degli artisti cosiddetti “realisti” diceva, appunto, che non facevano altro che “bistecche”. Continua a leggere

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Jean-Michel Basquiat: “…Di persone rifinite non ne ho mai conosciute: credici o no, ma saprei disegnarle…”

"Notary", 1983. Acrilico, pastello ad olio e collage di carta su cornice lignea, 180x401 cm. Collezione Schorr c/o Tony Shafrazi Gallery, New York.

Jean-Michel Basquiat era un creolo romantico: creolo, perchè la sua personalità è data dall’incontro tra impulsi culturale diversi, quasi antitetici, africani e occidentali; romantico, perchè egli incarna l’ideale dell’eroe romantico: nero, povero, che con le proprie doti intellettuali riesce a risorgere dalle ceneri. Ma la sua carriera ebbe una parabola troppo rapida perchè lo stesso Basquiat potesse controllarla: a 28 anni lo trovarono morto di overdose nel suo studio.

Basquiat si affaccia sulla scena dell’arte giovanissimo, dipingendo graffiti con lo pseudonimo di SAMO (che significava per lui “same old shit” [la solita vecchia merda]): grazie ad Andy Warhol, il cui merito fondamentale era di aver sdoganato nel ‘900 l’unione tra ciò che è triviale e ciò che è arte, ed al fatto che, nonostante quel che si pensa, il tagging a NY in quegli anni era un fenomeno trasversale alle classi sociali, le gallerie d’arte incominciano ad interessarsi a lui.

Negli anni ’80, tuttavia, il potere delle gallerie e dei galleristi stava crescendo enormemente: Basquiat da un lato comprende che se vuole andare avanti (come vuole), deve legarsi a personaggi importanti come Annina Nosei, Bischofberger, Mazzoli, ma dall’altro appare disgustato da questo sistema, che sembra mettere il denaro davanti all’arte. Di fatto, comunque, viene da dire che se l’arte è espressione dei tempi, e quelli/questi erano/sono i tempi del capitalismo finanziario più spregiudicato, l’arte, per essere “vera”, non può che corrompersi fino in fondo con il mercato. E questo Basquiat lo sa bene (Five thousand dollars, 1982): scriverà dovunque “SAMO is dead” [“SAMO è morto”]. Continua a leggere

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