Archivi tag: action painting

Long: “Le mie opere sono reali, non illusorie o concettuali. Sono fatte di pietre reali, tempo reale, azioni reali”

“Camminata per tutte le strade ed i sentieri, toccando o attraversando un cerchio immaginario”, 1977. Mappa, testo, azione. Somerset, Inghilterra.

Richard Long non ama essere inserito nel movimento della Land Art, che si affermò attorno agli anni ’60 ed è uno dei movimenti più interessanti della seconda metà del ‘900. La Land Art nasce, dopo la ripresa di realismo –o meglio, di realtà– della Pop Art, come un’ulteriore rifiuto dell’Espressionismo Astratto. che vedeva l’arte nella sua autonomia extratemporale, rifugiandosi in una dimensione altra rispetto alla realtà, completamente distaccata dal mondo e dalla società (v. ad es. Rothko). Già il minimalismo, nella sua interazione con l’ambiente circostante, esprimeva una direzione diversa. Dal minimalismo e dalla Body Art, la Land Art prende una gestualità spesso minimale (almeno nell’impatto visivo), che dialoga sempre con l’ambiente che ha intorno. Questo dialogo dai land-artists viene caricato anche di significati politici molto evidenti: molto prima di chiunque altro, essi pongono la loro attenzione sull’ambiente in senso ecologista; intuiscono già dagli anni ’60 che il modello di sviluppo consumistico stava minando alla base la nostra convivenza con la Natura, sia in termini di sostenibilità ambientale, sia di turbamento dell’interazione Uomo-Natura. La loro Arte contesta anche ogni modello di produttività capitalistica, che proprio in quegli anni, con le gallerie newyorkesi si stava impossessando anche del mondo dell’Arte. Opere come questa, che consiste in una banale camminata, non potevano in alcun modo essere commercializzate, e per qualche tempo mandarono “in tilt” il sistema del commercio dell’Arte.

L’Arte non era più finalizzata alla produzione di un oggetto, ma alla produzione di una relazione, che costitutivamente si svolge in uno spazio-tempo preciso, che rifugge dalla a-temporalità dell’astrattismo americano (si pensi a Michael Heizer a “When Attitudes Become Form”). Svolgendosi nello spazio, e non producendo un oggetto, necessariamente ogni rappresentazione fisica dell’opera non è davvero l’opera, ma solo un suo residuo oggettuale. Una fotografia, o una mappa (come in questo caso) ci dice tanto la presenza, quanto l’assenza dell’opera: lo spettatore poteva vedere la mappa esposta nella galleria, ma non Richard Long che in quel momento stava camminando per i sentieri del Somerset.
Le opere di Land Art o non producono un oggetto, o, qualora lo producano, esso è destinato al deterioramento inarrestabile nella natura. Del resto, da una parte la contestazione della “crioconservazione” dell’opera nei musei e nelle gallerie, e, dall’altra, il ritorno alla Natura sono elementi essenziali della poetica della Land Art: le opere sono inserite nel processo cosmico dell’entropia (cioè la tendenza al disordine e, quindi, alla distruzione), e sarebbe perciò assurdo pretenderne la conservazione. Continua a leggere

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Manzoni: “Ho mangiato una scultura”

"Consumazione dell'arte dinamica del pubblico divorare l'arte", esemplare n°16, 1960. Uovo, inchiostro, bambagia e legno, 5,6x6,8x8,2 cm. Collezione privata.

Il titolo di quest’opera è già un’enigma, e ciò non ci stupisce se parliamo di Piero Manzoni. L’immagine riportata, in realtà, non visualizza altro che il residuo oggettuale della vera opera d’arte, che consisteva in una performance di Manzoni il 21 luglio 1960 alla Galleria Azimut di Milano. Durante la performance, degli studenti di Brera, o di quell’ “Accademia alternativa” che era il bar Jamaica di quegli anni, non facevano altro che mangiare circa 150 “uova d’artista” sode, su cui Manzoni aveva apposto la propria impronta digitale.

Il titolo, alla luce di questa descrizione, dovrebbe quindi apparire come: “Consumazione dell’arte. Dinamica del pubblico. Divorare l’arte”. Evidentemente l’opera non è altro che l’allegoria della creazione dell’opera d’arte, in particolare scultorea: prelievo di un materiale naturale e sua trasformazione in opera d’arte attraverso la mano dell’artista, cui viene attribuita una sorta di sacralità. Ed, in effetti, è facile capire come la riflessione di Manzoni si ponga in linea con quella avviata da Duchamp con i suoi ready-made, per cui la scelta dell’artista è ciò che fa l’Arte. Come dire che tutto può essere arte, e come dire, quindi, che niente è arte. Come avevamo già visto per Duchamp, però, dire che niente è arte significa dire tutto dell’Arte, della sua esigenza di essere l’Indefinito che riempie le nostre debolezze, e non un rigido e forte schematismo che si fissa davanti a noi in un arido e muto monologo. Continua a leggere

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Talking with: Marina Abramović

Marina Abramović

Sabato 24 marzo incontro Marina Abramović nell’ambito della sua mostra milanese “The Abramović Method”, fino al 10 giugno al PAC di Milano. Ecco, quindi, qualche domanda che sono riuscito a farle solo per voi… Continua a leggere

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DALÌ: “COS’È LA TELEVISIONE PER L’UOMO, CHE DEVE SOLO CHIUDERE GLI OCCHI PER VEDERE LE PIÙ INACCESSIBILI REGIONI DEL VISIBILE E DELL’INVISIBILE, CHE DEVE SOLO USARE L’IMMAGINAZIONE PER ATTRAVERSARE I MURI E NEI SUOI SOGNI FAR SVEGLIARE DALLA POLEVERE TUTTE LE BAGHDAD DEL PIANETA?”

"Sogno causato dal volo di un'ape attorno ad una melagrana un attimo prima del risveglio", 1944. Olio su tela, 51x41 cm. Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza.

Salvador Dalì è un artista molto controverso. C’è perfino chi lo ritiene un uomo che “porta nella visione onirica e piena di implicazioni sessuali un suo delirio di grandezza, un’ampollosa retorica neo-barocca, una ripugnante mescolanza di lubrico e di sacro” (Argan). Probabilmente è vero, ma è altrettanto vero che Dalì è uno dei geni dell’arte del ‘900.

A mio avviso è fuorviante considerarlo un surrealista, e da qui possono essere nati molti equivoci: non ultimo dei motivi è che il surrealismo aveva posto fine all’idea dell’artista come creator mundi, vedendolo solo come “passivo” medium di contatto con una dimensione oltre la realtà, ed invece Dalì è un creatore quasi romantico, assai più che chiunque altro nel Novecento.
Il surrealismo, infatti, con la sua “pratica dell’inconscio” prelude all’action painting di Pollock, ma guardando Dalì nulla potrebbe esserci di più lontano. Continua a leggere

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Géricault: “Se gli ostacoli e le difficoltà scoraggiano un uomo mediocre, al contrario al genio sono necessari, e quasi lo alimentano”

"Le radeau de la Meduse", 1818. Olio su tela. 491x716 cm. Paris, Musée du Louvre

Théodore Géricault vive la sua breve vita in un momento molto particolare per la storia dell’arte, in cui si incrociano istanze neoclassiche (v. Flandrin), realiste e romantiche . Ed egli a suo modo attinge e dà spazio ad ognuna di queste tradizioni.

Anche qui, nella celeberrima “Zattera della Medusa”, i corpi si rifanno ad ideali neoclassici, ma la morte umile ne fa anche oggetti di una pittura realista, e senza dubbio la tensione, la luce e la passione che attraversa l’intera composizione sono schiettamente romantiche. Del resto la convivenza di questi diversi movimenti indica che essi rientrano nello stesso ciclo storico, ma semplicemente si differenzia l’approccio, che si alterna da razionale a passionale, come se fossero persone con caratteri diversi a muoversi nella stessa identica situazione politico-ideologico-sociale.

Quello che Géricault dipinge non è un “Giuramento degli Orazi” [1793], bensì un quadro di cronaca, un avvenimento contemporaneo, che si pone nei confronti dello spettatore non come una storia conclusa, ma come una riflessione sul presente con gli strumenti che esso stesso ci fornisce: non c’è alcuna allegoria, ma solo una realtà che si rivela nella sua crudezza.
Nonostante il quadro abbia tutte le caratteristiche del quadro epico-storico, la Medusa era una nave mercantile affondata nel 1816, e sul cui relitto erano sopravvissuti alcuni uomini, e solo tre o quattro riuscirono a tornare a Parigi. L’opinione pubblica francese fu molto sconvolta dai racconti dei naufraghi, che riferirono persino episodi di cannibalismo.  Continua a leggere

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