Il titolo di quest’opera è già un’enigma, e ciò non ci stupisce se parliamo di Piero Manzoni. L’immagine riportata, in realtà, non visualizza altro che il residuo oggettuale della vera opera d’arte, che consisteva in una performance di Manzoni il 21 luglio 1960 alla Galleria Azimut di Milano. Durante la performance, degli studenti di Brera, o di quell’ “Accademia alternativa” che era il bar Jamaica di quegli anni, non facevano altro che mangiare circa 150 “uova d’artista” sode, su cui Manzoni aveva apposto la propria impronta digitale.
Il titolo, alla luce di questa descrizione, dovrebbe quindi apparire come: “Consumazione dell’arte. Dinamica del pubblico. Divorare l’arte”. Evidentemente l’opera non è altro che l’allegoria della creazione dell’opera d’arte, in particolare scultorea: prelievo di un materiale naturale e sua trasformazione in opera d’arte attraverso la mano dell’artista, cui viene attribuita una sorta di sacralità. Ed, in effetti, è facile capire come la riflessione di Manzoni si ponga in linea con quella avviata da Duchamp con i suoi ready-made, per cui la scelta dell’artista è ciò che fa l’Arte. Come dire che tutto può essere arte, e come dire, quindi, che niente è arte. Come avevamo già visto per Duchamp, però, dire che niente è arte significa dire tutto dell’Arte, della sua esigenza di essere l’Indefinito che riempie le nostre debolezze, e non un rigido e forte schematismo che si fissa davanti a noi in un arido e muto monologo. Continua a leggere