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Munch: “I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura”

"L'urlo", 1893. Olio, tempera e pastello su cartone, 83x66 cm. Oslo, Galleria Nazionale.

Questo è un quadro di Edvard Munch. Nel senso che è stato “respirato” da Edvard Munch in un preciso istante, è diventato parte di lui, e lui si è fuso in questo cartone, in cui ci sembra, infatti, di cogliere una completa compenetrazione tra il pittore e il soggetto, dove, però, il soggetto non è solo la figura in primo piano, ma l’intero ritaglio di mondo rappresentato. Ad uno sguardo più attento, però, questo “pezzo di realtà” sembra estendersi oltre il ritaglio del quadro: la strada dà l’idea di estendersi in lunghezza per tutto il mondo, quell’orizzonte è così vago che lo si potrebbe vedere da ogni pontile del mondo: il pittore ci suggerisce un’immagine universale, una tremenda avvolgente angoscia, che pervade il mondo intero.

Munch era un uomo travagliato, che sembra non essere capace di tirar fuori la testa dal gorgo dell’ansia, dell’angoscia, della paura, della morte, che gli portò via la mamma ed anche la sorella, malata di turbercolosi, dopo una lunga malattia. Dal permanere al capezzale della sorella tubercolotica deriveranno quei rossi così densi di angoscia che, insieme alle tematiche dei suoi quadri, procureranno scandalo a Berlino, tanto che la sua mostra dovette essere soppressa.

Nel suo famosissimo “Urlo”, Munch è preda di un’angoscia divorante, che sembra aver sottratto la vita dal suo corpo, assottigliato, scavato, devitalizzato, morente, privato della colonna vertebrale, tanto da sembrare un ectoplasma. Gli occhi uniformemente scoloriti sembrano impallidire, tutt’uno con il volto, di fronte all’immagine delle dinamiche interne della realtà: Munch sembra aver capito qui, con orrore, che il mondo è morte. Tutto muore, “tutto père quaggiù” (Monti), quaggiù non ci può essere uno stabile punto di riferimento, un centro di gravità permanente: la condizione dell’uomo è di eterna precarietà, instabilità, oltre il mito di quel Sisifo condannato a portare un masso sulla cima di un monte e regolarmente vederlo rirotolare a valle, poichè la vita non solo è un eterno insensato ritorno, ma anzi il suo unico senso, il più profondo, sta nella morte di ogni cosa, nel dolore che la costella ad intervalli irregolari. Continua a leggere

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