De Chirico: “L’arte è la rete fatale che avvolge con le ali questi strani momenti come misteriose farfalle, scacciando l’innocenza e la distrazione degli uomini comuni”

"Canto d'amore", 1914. Olio su tela, 73x59. MOMA, New York.

Giorgio De Chirico è universalmente noto come pittore metafisico. Ma legittimamente ci si potrebbe chiedere cosa sia la pittura metafisica, ed effettivamente una risposta precisa non c’è, come si stenta a trovare in filosofia una definizione della parola “metafisica”, che non ne ricalchi semplicemente l’etimologia: “metà” (oltre) – “fisica” (elementi sensibili): metafisica, insomma, è tutto ciò che va al di là di ciò che possiamo vedere, toccare, gustare, annusare, ascoltare, tutto ciò che, insomma, va “più in là”.

Se in filosofia l’indagine metafisica cerca delle risposte su come questa realtà ultrafenomenica si conformi (come tessuto immanente alla realtà? Come un Dio altro da essa? Come un mondo parallelo che governa il nostro? etc…), nelle arti l’indagine sulla metafisica si pone semplicemente come rappresentazione plastica di queste domande, non con lo scopo di cercare delle risposte, quanto di suscitare delle emozioni. Qui sta un po’ tutta la differenza tra arte e filosofia, che insieme, comunque, tengono vivo l’uomo attraverso delle domande.

De Chirico, nella sua fase metafisica, si pone in questa ricerca in modo del tutto particolare: in questo quadro-simbolo della più grande astrazione raggiunta (c’è chi lo avvicina al surrealismo), il pittore accosta la testa dell’Apollo del Belvedere a un guanto inchiodato e ad una palla verde, sullo sfondo di una città italiana rinascimentale, con un treno in secondo piano che sbuffa dietro un anonimo muretto. De Chirico sta, insomma, accostando elementi che -a parte le mirabolanti interpretazioni- non c’entrano nulla l’uno con l’altro, compiendo, in un certo senso, in pittura quello che Duchamp aveva fatto in scultura con il ready-made, dando forza all’idea che l’artista è colui che assembla a dovere la realtà, più che chi si crea uno stile particolare.
Come Duchamp, anche De Chirico, peraltro, inserendo questi oggetti in un tessuto estraneo e senza relazione tra loro, medita sul valore del “contesto” -che oggi, in una società conformista, acquista tanto più peso-: il contesto adatto è quello in cui emergiamo singolarmente oppure quello in cui ci relazioniamo con gli altri (a prezzo di equivoci), o ancora quello in cui ci confondiamo indistintamente?

Di fatto quest’operazione di assemblaggio sta scardinando tutto il nostro sistema interpretativo: è come se aprissimo un vocabolario formato solo da quattro o cinque parole che rimandano l’una all’altra, in un circolo vizioso senza fine, senza possibilità di conoscenza. Ma effettivamente un vocabolario non è forse questo? Non è un sistema circolare di continui rimandi, chiuso su se stesso, una costruzione fittizia che non spiega nulla?
De Chirico ci sta, quindi, dimostrando che  in realtà  tutto il nostro modo di vedere le cose è solo UNO dei tanti possibili, e probabilmente anche fallaci. Per qualcuno, infatti, che non avesse mai visto un guanto, un Apollo, una palla, un treno ed una città, questo quadro avrebbe davvero meno “senso” di uno di Monet, e più di uno di Pollock? No, assolutamente no.
La nostra storia, il nostro vissuto, i nostri sistemi interpretativi, ci pesano dentro, ma non ci fanno diversi davvero: tutti siamo accomunati dalla fatica, dalla difficoltà di trovare delle risposte, dalla precarietà dei nostri sistemi geometrizzati [“Le trouble du phiosophe”, 1926].

Ecco allora che tutto questo ci atterrisce, ci fa sentire fragili, ci sprofonda nel silenzio più assoluto, e tutto ciò è già contenuto nel quadro.
Nella sospensione di questo assoluto silenzio avvertiamo la presenza del vuoto, un’assenza, una mancanza, un senso di qualcosa di irrisolto, di precariamente abbozzato, un’immensa solitudine, in cui non possono vivere altri esseri umani, ma solo statue e manichini [“Ettore e Andromaca”, 1930].
Sono queste le stesse ansie, gli stessi vuoti, gli stessi enigmi della contemporaneità, che si accalcano e spirano nei vuoti che già Ingres e Flandrin avevano dipinto tra le loro rocce, e che De Chirico ripropone in tutti i suoi quadri [“Le muse inquietanti”, 1917].

Eppure scivola in questi quadri un senso di malinconica felicità, di quell’atmosfera “del pomeriggio d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe che d’estate, perché il sole comincia ad essere più basso”, di quelle giornate in cui si è tristi senza motivo, sentendo di poter essere felici, ma senza riuscirvi. De Chirico rappresenta tutto questo eliminando anche il Sole dai suoi quadri, ma non la sua luce: è come se noi sentissimo dentro l’istinto di seguire quello sguardo di Apollo, alla ricerca del Sole, alla ricerca della felicità.

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